LE SORELLE DIABOLIK
Come due belle milanesi, Angela e Luciana Giussani, da fotomodelle divennero madri di un fumetto
di Marianna Rizzini
Fa freddo, è una mattina del 1962, uno degli inverni più gelidi del ventesimo secolo, pare. Almeno a Milano. Una donna alta, bionda, elegante – grandi occhiali scuri, cappotto e camicia bianca – attraversa Piazzale Cadorna, quello della stazione “Ferrovie Nord” poi rifatta da Gae Aulenti, quello dove oggi ci si dà appuntamento, appena fuori dalla metropolitana, sotto la scultura “ago, filo e nodo” di Oldenburg e Van Bruggen. La donna si accende una sigaretta, una delle tante. La tiene in mano. Pensa, sorride. Finita la sigaretta, ne prende subito un’altra, usando il mozzicone come accendino. Un gesto quasi rozzo per le sue mani così chiare e curate. Poi ricomincia a camminare, dinoccolata ma non altera, lasciandosi alle spalle i tram e il brusio dei pendolari che scendono dai treni di Cadorna per andare al lavoro. Chissà se è sposata, fidanzata, promessa. Chissà che lavoro fa. Potrebbe essere un’attrice, tanto è bella, una nobildonna, tanto è regale il suo portamento. Magari è un’ereditiera, una straniera, il sogno dei playboy di una città che rinasce con il boom. In realtà la donna sta andando al lavoro: undici ore di ufficio, poche distrazioni, pochi colleghi, ritmi serrati. Ha un marito, da tanti anni, ma soltanto due veri amori. Il primo è un uomo di cui si sa molto poco. Ha occhi grandi, sopracciglia inarcate, uno sguardo freddo, si veste soltanto di nero. Un bel tenebroso, forse un fedifrago seriale, comunque un tipo poco raccomandabile che ha guai con la giustizia. Il secondo è un amore familiare, solido: l’affetto profondo per una sorella altrettanto alta, bella e dinoccolata.
“Vota No”. No all’abrogazione della legge sul divorzio. Firmato Diabolik, il criminale in tuta nera, ladro e assassino, l’eroe dei fumetti, crudele e mai attraversato dallo scrupolo. È il 1976, e Diabolik spunta, coraggioso tra i suoi colleghi di carta, tra i sostenitori del divorzio. L’appello per il “no” appare nella seconda e terza di copertina di un numero del giornaletto. È tutto spiegato nei dettagli ai lettori. Anche che “600 milioni di cattolici vivono in paesi in cui c’è il divorzio e non hanno mai chiesto l’abrogazione”. Quindi, consiglia Diabolik, “votate no”. Una cosa impossibile in epoca di par condicio. Oggi Diabolik non potrebbe dare suggerimenti di voto, ma sarebbe di sicuro favorevole ai Pacs, formula più adatta di un matrimonio a definire il suo rapporto maturo e libertario con la bella Eva Kant (la donna che ha amato per tutta la vita e non ha mai sposato). Strano che una sagoma di carta, con quegli occhi stretti dai confini neri della mascherina, decida di votare “no” al referendum sul divorzio, e che voglia dire la sua anche sul Sessantotto, sugli studenti che occupano le università, sulla droga, le violenze
carnali, le ingiustizie sociali, proprio lui, un ladro che non ci va per il sottile quando si tratta di impadronirsi di diamanti e soldi nelle case dei ricchi. Strano per chi (come noi) ha letto pochi fumetti, al massimo Topolino, ed è cresciuto in anni in cui Diabolik era famoso ma già irrimediabilmente soppiantato dai cartoni animati giapponesi.
Non così strano, però, appare il voto per il “no” di Diabolik, se si pensa che è lui l’uomo in nero amato pazzamente dalla signora di Piazzale Cadorna, la sua demiurga e paladina. Una donna che lavorava e andava in giro a cercare collaboratori e clienti quando ancora le donne stavano a casa, una ragazza nata negli anni Venti in una famiglia benestante di Milano, cresciuta durante la guerra, sfollata in Romagna, a Cervia, tornata in città quando ormai l’azienda di famiglia era stata polverizzata dai bombardamenti, fotomodella per caso, aviatrice e infine editrice e sceneggiatrice di un fumetto a cui nessuno, all’inizio, dava più di un numero
di vita, un fumetto perseguitato dagli alfieri dell’“oltraggio al pudore e dell’incitazione alla violenza”, e sempre assolto, per sette lunghi anni di processi, paura e sollievo. Quella donna bionda aveva la patente e guidava la Mini, come poi farà Eva Kant. La Mini è la piccola macchina delle ragazze indipendenti, e infatti la donna di Piazzale Cadorna non aspettava mai che il marito, un dongiovanni genialoide di nome Gino Sansoni, editore garibaldino e tifoso del Milan fino all’annullamento, le aprisse la portiera.
Come la sua bella creatrice Diabolik è, sotto sotto, un borghese progressista, un milanese-bene che legge i giornali, ascolta la radio, si fa i fatti suoi ma poi non ama le convenzioni, le imposizioni, i condizionamenti di padri, madri, preti e benpensanti. Diabolik ha davvero una doppia identità. Si chiama Giussani, il cognome di Angela, la donna bionda, e di Luciana, l’altra sorella. Anche lei bella come una diva. Anche lei fotomodella, anche lei sportiva. Forse più irrequieta in amore della saggia Angela. Luciana ha fatto quello che non si deve mai fare se non si vuole finire incarognite tra le lacrime: innamorarsi del tipo che c’è e non c’è, nel suo caso il collega carino che va, viene, promette e mai mantiene, mentre tu stai lì ad aspettare che squilli il telefono. E Luciana, non fosse intervenuto Diabolik, sarebbe finita così, a piangere davanti a un telefono muto con la mamma che borbottava “te l’avevo detto”.
Ora, a un non addetto ai lavori tutta la storia appare quantomeno inverosimile. E infatti questo si pensa, appena si legge il titolo e soprattutto il sottotitolo del libro di Davide Barzi (con Tito Faraci) “Le Regine del Terrore, Angela e Luciana Giussani: le ragazze della Milano bene che inventarono Diabolik” (ed. storiedisegni). Si pensa: mah. Due sorelle del genere dietro Diabolik? Due belle milanesi raffinate, sottili e sorridenti come ballerine dietro a tutti quei rapimenti, rapine, sgozzamenti, dietro a un uomo efferato? Quando, come e perché?, ci si chiede. Barzi lo racconta. Ed è una storia che, specie se non si è intenditori di fumetti, resta in mente più delle avventure del ladro in calzamaglia nera (con tutto il rispetto). Innanzitutto, il treno. La mania dei treni. La frenesia positiva che ti mette addosso la stazione, come il porto o l’aeroporto, il non luogo che promette altri luoghi e altre vite. La curiosità di indovinare chi sono le persone che ti siedono accanto nel vagone, e che il caso ti ha messo lì, in quella combinazione: la signora col bambino e la suora accanto e il ragazzo con i brufoli e l’uomo con la valigetta. Li guardi di nascosto, facendo finta di sonnecchiare, per cercare di capire che cosa fanno, dove vivono, con chi escono. Tutti l’abbiamo provata, questa curiosità. Angela ne ha fatto uno strumento del mestiere. Un giorno stava andando a Saronno dai parenti. Era pensierosa. Suo marito, Gino, aveva aperto una casa editrice. Angela aveva lavorato un po’ con lui, facendo di tutto, persino la fotomodella per pubblicità e riviste varie. Pian piano si era creata una nicchia, una sotto-casa editrice tra il cucinotto e il corridoio dell’ufficio del marito. E sperava di coinvolgere nel suo lavoro anche quella sorella così intelligente e triste. Magari è la volta buona che dimentica quel cretino dell’ufficio che la fa soffrire, deve aver pensato, uno che non assomigliava neanche un po’ ai giovanotti che avevano conosciuto a Cervia, tra cui Gino, baldanzosi ma gentili, compagni di giochi di un’infanzia inconsapevolmente di regime (anni Trenta), e poi di gite spensierate che stridevano con i i bollettini dei bombardamenti su Milano. Sul treno, Angela quel giorno si arrovellava: che cosa può interessare a questi pendolari che vanno e vengono da Saronno? Non un libro, troppo lungo. Non una striscia, troppo breve. Non un giornale, troppo faticoso. Ed ecco che sul sedile di fronte vede un fascicolo spiegazzato di un similfeuilletton francese, Fantomas. Storiadi ladri e ispettori, donne e gioielli. Da quel pensiero, e da quel fortuito ritrovamento, è nato Diabolik. Ma Angela e Luciana, racconta Barzi nel libro, hanno realizzato che quel ladro poco gentiluomo avrebbe avuto successo soltanto dopo l’uscita del terzo numero, quando due ragazzini si affacciarono alla porta del loro ufficio chiedendo: quando esce il seguito?
Poi, il marito. Oltre al treno, è il marito Gino Sansoni la chiave delle scelte di Angela. Com’è possibile, ci si chiede, che quella bellissima ragazza, intelligente e ribelle al volere del padre Enrico (che la voleva docilmente maestra) vada a sposare proprio il primo amore da spiaggia, quel Gino così grossolano nell’aspetto e così sbrigativo nei modi, che non a caso lei aveva già una volta dimenticato? Un dubbio che evidentemente era sorto anche nella mente di Luciana, se è vero che la secondogenita Giussani sopportava a fatica quel cognato chiassoso, scaltro e un po’ superficiale. Eppure senza Gino, senza le sue idee pazze al limite del buon gusto, senza le sue intuizioni sulle fanzine per tifoseria di ogni estrazione sociale (come “Forza Milan” ), senza la passione per le donne dagli abiti succinti (come le future eroine dei fumetti) e senza la volontà di uno che dopo la guerra si è fatto da solo, Angela non avrebbe mai preso quella strada. Sarebbe stata lo stesso lei, magari – indipendente, estrosa, esuberante – ma non avrebbe mai pensato di scrivere storie che avessero per protagonista un ladro in maschera. Non aveva mai pensato che tra i suoi molti talenti, racconta Barzi, ci fosse quello di scrittrice. Non sarebbe insomma diventata editrice della “Astorina”, sceneggiatrice del suo Diabolik, reclutatrice di talenti. Come sua sorella, come Mario Gomboli, come i co-sceneggiatori e i disegnatori che con Diabolik sono cresciuti. E però proprio Gino Sansoni poteva diventare un freno, se Angela non fosse stata quello che era: una donna che non si annullava per nessuno. Angela non ha mai permesso a Gino di trasformarla in una moglie soprammobile, nella metà di niente. Si è separata. E’ partita in vacanza, una delle poche della sua vita lavorativa, con sua sorella e due amiche. Tu non vieni, ha detto a Gino. Ora basta, i viaggi di “lavoro” a seguito del Milan te li fai, se vuoi, ma perdi me. E lui l’ha persa. Persa come moglie, non come collega e amica, perché Angela e Luciana erano delle signore vere. E le signore vere la vendetta magari la vogliono, ma non a prezzo del grave malessere altrui. Quando Gino è stato male, anni dopo, l’hanno aiutato senza nemmeno dire che il medico l’avevano pagato loro.
Eppure Angela e Luciana, con quella adolescenza “gatée” alle spalle, sulla spiaggia di Cervia, viziate come possono esserlo due ragazze di buona famiglia in tempo di guerra, non lasciavano presagire nulla. Andavano ai balli, indossavano bei vestiti con la gonna a ruota, si pettinavano come la Grace Kelly che poi farà da modello a Eva Kant. E da ragazze, tornate a Milano, erano amiche del giovane Tom Ponzi, il mago dell’investigazione, e frequentavano il mondo febbrile degli imprenditori riemersi dall’apnea ’43-’45. Gino era amico di giornalisti sportivi, anche di Gianni Brera, le ragazze volevano divertirsi ma apparentemente erano pronte per una vita da signore. Avevano imparato a cucinare e riordinare la casa grazie agli insegnamenti di una mamma svizzera, sebbene Angela non fosse un genio dei fornelli – lo si era capito quando, da piccola, non riusciva neppure a rompere il guscio di un uovo senza impiastricciare tavolo e pavimento.
Forse allora, dietro alla maschera di Diabolik, le sorelle Giussani (che non sono parenti di Don Giussani) hanno potuto dare sfogo al pensiero che avevano sempre custodito e mai formulato: noi non siano fatte per quella vita lì, tutta ricevimenti, ville in Liguria, tre figli a testa e la torta per i nipotini. Siamo fatte per altro. Per le riunioni in redazione, per le sfacchinate in cui si mette insieme una trama da quattro idee sparse pagate a giallisti e studenti, per le dodici ore in una stanza fumosa, per l’agosto appicicaticcio di Milano, per le scadenze che arrivano troppo presto, per la paura dei concorrenti e la soddisfazione di averli finalmente debellati.
Le sorelle non erano fatte per la vita da madre. Però hanno protetto il loro Diabolik, dall’anno di nascita, il 1962, al 1969, dalle grinfie dei “censori”. Ricorda Barzi che i fumetti neri erano in quegli anni considerati spazzatura dannosa per i giovani e istigatori di violenza, persino da intellettuali artisti come Gianni Rodari, Mina e Dino Buzzati (che però leggeva Diabolik e lo chiedeva alla moglie come lettura-antidoto alla noia di letture pesanti). Con un anno di anticipo rispetto all’uscita di Diabolik, per autotutelarsi dalla “pruderie” borghese, l’Associazione italiana editori periodici per ragazzi aveva stilato una sorta di “regolamento”. Uno degli articoli intimava: “La stampa per ragazzi non deve mai presentare le azioni criminose in modo tale da suscitare simpatia per il criminale, sfiducia nella legge e nella giustizia”. E ancora “l’eroe eviti di raggiungere il giusto scopo finale servendosi di mezzi delittuosi”, “sono proibite le eccessive nudità e le pose sconvenienti”. Diabolik si serviva di mezzi criminosi, le donne del fumetto non erano proprio castigate, ma le sorelle Giussani riuscirono sempre a evitare per un pelo la condanna. Non si è mai capito se il giudice si fermava alle copertine, sapientemente calibrate per evitare guai, o se Diabolik, tutto sommato, gli apparisse innocuo.
Se si guarda la storia dalla fine, cioè dalla scomparsa delle sorelle Giussani, appare ancora più inverosimile che siano state loro a inventare l’uomo dalla maschera nera. Avrebbero potuto avere una vita da jet set, uomini a profusione, forse mariti ricchi e famosi. Scelsero di invecchiare con l’unico amore, Diabolik, chiuse in ufficio, allegre, intente a immettere la modernità politica in quelle storie di crimine, proprio loro che erano state apolitiche in gioventù, pacificamente accoccolate nel fascismo della loro infanzia. Non si erano poste molte domande, durante e dopo il crollo del regime. Angela aveva addirittura sposato un mussoliniano, Gino, e la cosa non la disturbava, anzi neanche la toccava. Eppure, man mano che Diabolik diventava grande, le sorelle maturavano consapevolezza, sensibilità verso i movimenti degli anni Sessanta e Settanta e insofferenza per il conformismo borghese. Fino a quel “no” al divorzio gridato forte, stampato in copertina. Attorno a loro c’era il silenzio. Più Diabolik cresceva, più loro scomparivano dietro di lui. Fino a diventare invisibili. Angela si è ammalata ed è morta nel 1987, Luciana si è ammalata ed è morta nel 2001. Se ne sono andate, discrete e delicate, in punta di piedi, nuove Miss Marple di città.
Come due belle milanesi, Angela e Luciana Giussani, da fotomodelle divennero madri di un fumetto
di Marianna Rizzini
Fa freddo, è una mattina del 1962, uno degli inverni più gelidi del ventesimo secolo, pare. Almeno a Milano. Una donna alta, bionda, elegante – grandi occhiali scuri, cappotto e camicia bianca – attraversa Piazzale Cadorna, quello della stazione “Ferrovie Nord” poi rifatta da Gae Aulenti, quello dove oggi ci si dà appuntamento, appena fuori dalla metropolitana, sotto la scultura “ago, filo e nodo” di Oldenburg e Van Bruggen. La donna si accende una sigaretta, una delle tante. La tiene in mano. Pensa, sorride. Finita la sigaretta, ne prende subito un’altra, usando il mozzicone come accendino. Un gesto quasi rozzo per le sue mani così chiare e curate. Poi ricomincia a camminare, dinoccolata ma non altera, lasciandosi alle spalle i tram e il brusio dei pendolari che scendono dai treni di Cadorna per andare al lavoro. Chissà se è sposata, fidanzata, promessa. Chissà che lavoro fa. Potrebbe essere un’attrice, tanto è bella, una nobildonna, tanto è regale il suo portamento. Magari è un’ereditiera, una straniera, il sogno dei playboy di una città che rinasce con il boom. In realtà la donna sta andando al lavoro: undici ore di ufficio, poche distrazioni, pochi colleghi, ritmi serrati. Ha un marito, da tanti anni, ma soltanto due veri amori. Il primo è un uomo di cui si sa molto poco. Ha occhi grandi, sopracciglia inarcate, uno sguardo freddo, si veste soltanto di nero. Un bel tenebroso, forse un fedifrago seriale, comunque un tipo poco raccomandabile che ha guai con la giustizia. Il secondo è un amore familiare, solido: l’affetto profondo per una sorella altrettanto alta, bella e dinoccolata.
“Vota No”. No all’abrogazione della legge sul divorzio. Firmato Diabolik, il criminale in tuta nera, ladro e assassino, l’eroe dei fumetti, crudele e mai attraversato dallo scrupolo. È il 1976, e Diabolik spunta, coraggioso tra i suoi colleghi di carta, tra i sostenitori del divorzio. L’appello per il “no” appare nella seconda e terza di copertina di un numero del giornaletto. È tutto spiegato nei dettagli ai lettori. Anche che “600 milioni di cattolici vivono in paesi in cui c’è il divorzio e non hanno mai chiesto l’abrogazione”. Quindi, consiglia Diabolik, “votate no”. Una cosa impossibile in epoca di par condicio. Oggi Diabolik non potrebbe dare suggerimenti di voto, ma sarebbe di sicuro favorevole ai Pacs, formula più adatta di un matrimonio a definire il suo rapporto maturo e libertario con la bella Eva Kant (la donna che ha amato per tutta la vita e non ha mai sposato). Strano che una sagoma di carta, con quegli occhi stretti dai confini neri della mascherina, decida di votare “no” al referendum sul divorzio, e che voglia dire la sua anche sul Sessantotto, sugli studenti che occupano le università, sulla droga, le violenze
carnali, le ingiustizie sociali, proprio lui, un ladro che non ci va per il sottile quando si tratta di impadronirsi di diamanti e soldi nelle case dei ricchi. Strano per chi (come noi) ha letto pochi fumetti, al massimo Topolino, ed è cresciuto in anni in cui Diabolik era famoso ma già irrimediabilmente soppiantato dai cartoni animati giapponesi.
Non così strano, però, appare il voto per il “no” di Diabolik, se si pensa che è lui l’uomo in nero amato pazzamente dalla signora di Piazzale Cadorna, la sua demiurga e paladina. Una donna che lavorava e andava in giro a cercare collaboratori e clienti quando ancora le donne stavano a casa, una ragazza nata negli anni Venti in una famiglia benestante di Milano, cresciuta durante la guerra, sfollata in Romagna, a Cervia, tornata in città quando ormai l’azienda di famiglia era stata polverizzata dai bombardamenti, fotomodella per caso, aviatrice e infine editrice e sceneggiatrice di un fumetto a cui nessuno, all’inizio, dava più di un numero
di vita, un fumetto perseguitato dagli alfieri dell’“oltraggio al pudore e dell’incitazione alla violenza”, e sempre assolto, per sette lunghi anni di processi, paura e sollievo. Quella donna bionda aveva la patente e guidava la Mini, come poi farà Eva Kant. La Mini è la piccola macchina delle ragazze indipendenti, e infatti la donna di Piazzale Cadorna non aspettava mai che il marito, un dongiovanni genialoide di nome Gino Sansoni, editore garibaldino e tifoso del Milan fino all’annullamento, le aprisse la portiera.
Come la sua bella creatrice Diabolik è, sotto sotto, un borghese progressista, un milanese-bene che legge i giornali, ascolta la radio, si fa i fatti suoi ma poi non ama le convenzioni, le imposizioni, i condizionamenti di padri, madri, preti e benpensanti. Diabolik ha davvero una doppia identità. Si chiama Giussani, il cognome di Angela, la donna bionda, e di Luciana, l’altra sorella. Anche lei bella come una diva. Anche lei fotomodella, anche lei sportiva. Forse più irrequieta in amore della saggia Angela. Luciana ha fatto quello che non si deve mai fare se non si vuole finire incarognite tra le lacrime: innamorarsi del tipo che c’è e non c’è, nel suo caso il collega carino che va, viene, promette e mai mantiene, mentre tu stai lì ad aspettare che squilli il telefono. E Luciana, non fosse intervenuto Diabolik, sarebbe finita così, a piangere davanti a un telefono muto con la mamma che borbottava “te l’avevo detto”.
Ora, a un non addetto ai lavori tutta la storia appare quantomeno inverosimile. E infatti questo si pensa, appena si legge il titolo e soprattutto il sottotitolo del libro di Davide Barzi (con Tito Faraci) “Le Regine del Terrore, Angela e Luciana Giussani: le ragazze della Milano bene che inventarono Diabolik” (ed. storiedisegni). Si pensa: mah. Due sorelle del genere dietro Diabolik? Due belle milanesi raffinate, sottili e sorridenti come ballerine dietro a tutti quei rapimenti, rapine, sgozzamenti, dietro a un uomo efferato? Quando, come e perché?, ci si chiede. Barzi lo racconta. Ed è una storia che, specie se non si è intenditori di fumetti, resta in mente più delle avventure del ladro in calzamaglia nera (con tutto il rispetto). Innanzitutto, il treno. La mania dei treni. La frenesia positiva che ti mette addosso la stazione, come il porto o l’aeroporto, il non luogo che promette altri luoghi e altre vite. La curiosità di indovinare chi sono le persone che ti siedono accanto nel vagone, e che il caso ti ha messo lì, in quella combinazione: la signora col bambino e la suora accanto e il ragazzo con i brufoli e l’uomo con la valigetta. Li guardi di nascosto, facendo finta di sonnecchiare, per cercare di capire che cosa fanno, dove vivono, con chi escono. Tutti l’abbiamo provata, questa curiosità. Angela ne ha fatto uno strumento del mestiere. Un giorno stava andando a Saronno dai parenti. Era pensierosa. Suo marito, Gino, aveva aperto una casa editrice. Angela aveva lavorato un po’ con lui, facendo di tutto, persino la fotomodella per pubblicità e riviste varie. Pian piano si era creata una nicchia, una sotto-casa editrice tra il cucinotto e il corridoio dell’ufficio del marito. E sperava di coinvolgere nel suo lavoro anche quella sorella così intelligente e triste. Magari è la volta buona che dimentica quel cretino dell’ufficio che la fa soffrire, deve aver pensato, uno che non assomigliava neanche un po’ ai giovanotti che avevano conosciuto a Cervia, tra cui Gino, baldanzosi ma gentili, compagni di giochi di un’infanzia inconsapevolmente di regime (anni Trenta), e poi di gite spensierate che stridevano con i i bollettini dei bombardamenti su Milano. Sul treno, Angela quel giorno si arrovellava: che cosa può interessare a questi pendolari che vanno e vengono da Saronno? Non un libro, troppo lungo. Non una striscia, troppo breve. Non un giornale, troppo faticoso. Ed ecco che sul sedile di fronte vede un fascicolo spiegazzato di un similfeuilletton francese, Fantomas. Storiadi ladri e ispettori, donne e gioielli. Da quel pensiero, e da quel fortuito ritrovamento, è nato Diabolik. Ma Angela e Luciana, racconta Barzi nel libro, hanno realizzato che quel ladro poco gentiluomo avrebbe avuto successo soltanto dopo l’uscita del terzo numero, quando due ragazzini si affacciarono alla porta del loro ufficio chiedendo: quando esce il seguito?
Poi, il marito. Oltre al treno, è il marito Gino Sansoni la chiave delle scelte di Angela. Com’è possibile, ci si chiede, che quella bellissima ragazza, intelligente e ribelle al volere del padre Enrico (che la voleva docilmente maestra) vada a sposare proprio il primo amore da spiaggia, quel Gino così grossolano nell’aspetto e così sbrigativo nei modi, che non a caso lei aveva già una volta dimenticato? Un dubbio che evidentemente era sorto anche nella mente di Luciana, se è vero che la secondogenita Giussani sopportava a fatica quel cognato chiassoso, scaltro e un po’ superficiale. Eppure senza Gino, senza le sue idee pazze al limite del buon gusto, senza le sue intuizioni sulle fanzine per tifoseria di ogni estrazione sociale (come “Forza Milan” ), senza la passione per le donne dagli abiti succinti (come le future eroine dei fumetti) e senza la volontà di uno che dopo la guerra si è fatto da solo, Angela non avrebbe mai preso quella strada. Sarebbe stata lo stesso lei, magari – indipendente, estrosa, esuberante – ma non avrebbe mai pensato di scrivere storie che avessero per protagonista un ladro in maschera. Non aveva mai pensato che tra i suoi molti talenti, racconta Barzi, ci fosse quello di scrittrice. Non sarebbe insomma diventata editrice della “Astorina”, sceneggiatrice del suo Diabolik, reclutatrice di talenti. Come sua sorella, come Mario Gomboli, come i co-sceneggiatori e i disegnatori che con Diabolik sono cresciuti. E però proprio Gino Sansoni poteva diventare un freno, se Angela non fosse stata quello che era: una donna che non si annullava per nessuno. Angela non ha mai permesso a Gino di trasformarla in una moglie soprammobile, nella metà di niente. Si è separata. E’ partita in vacanza, una delle poche della sua vita lavorativa, con sua sorella e due amiche. Tu non vieni, ha detto a Gino. Ora basta, i viaggi di “lavoro” a seguito del Milan te li fai, se vuoi, ma perdi me. E lui l’ha persa. Persa come moglie, non come collega e amica, perché Angela e Luciana erano delle signore vere. E le signore vere la vendetta magari la vogliono, ma non a prezzo del grave malessere altrui. Quando Gino è stato male, anni dopo, l’hanno aiutato senza nemmeno dire che il medico l’avevano pagato loro.
Eppure Angela e Luciana, con quella adolescenza “gatée” alle spalle, sulla spiaggia di Cervia, viziate come possono esserlo due ragazze di buona famiglia in tempo di guerra, non lasciavano presagire nulla. Andavano ai balli, indossavano bei vestiti con la gonna a ruota, si pettinavano come la Grace Kelly che poi farà da modello a Eva Kant. E da ragazze, tornate a Milano, erano amiche del giovane Tom Ponzi, il mago dell’investigazione, e frequentavano il mondo febbrile degli imprenditori riemersi dall’apnea ’43-’45. Gino era amico di giornalisti sportivi, anche di Gianni Brera, le ragazze volevano divertirsi ma apparentemente erano pronte per una vita da signore. Avevano imparato a cucinare e riordinare la casa grazie agli insegnamenti di una mamma svizzera, sebbene Angela non fosse un genio dei fornelli – lo si era capito quando, da piccola, non riusciva neppure a rompere il guscio di un uovo senza impiastricciare tavolo e pavimento.
Forse allora, dietro alla maschera di Diabolik, le sorelle Giussani (che non sono parenti di Don Giussani) hanno potuto dare sfogo al pensiero che avevano sempre custodito e mai formulato: noi non siano fatte per quella vita lì, tutta ricevimenti, ville in Liguria, tre figli a testa e la torta per i nipotini. Siamo fatte per altro. Per le riunioni in redazione, per le sfacchinate in cui si mette insieme una trama da quattro idee sparse pagate a giallisti e studenti, per le dodici ore in una stanza fumosa, per l’agosto appicicaticcio di Milano, per le scadenze che arrivano troppo presto, per la paura dei concorrenti e la soddisfazione di averli finalmente debellati.
Le sorelle non erano fatte per la vita da madre. Però hanno protetto il loro Diabolik, dall’anno di nascita, il 1962, al 1969, dalle grinfie dei “censori”. Ricorda Barzi che i fumetti neri erano in quegli anni considerati spazzatura dannosa per i giovani e istigatori di violenza, persino da intellettuali artisti come Gianni Rodari, Mina e Dino Buzzati (che però leggeva Diabolik e lo chiedeva alla moglie come lettura-antidoto alla noia di letture pesanti). Con un anno di anticipo rispetto all’uscita di Diabolik, per autotutelarsi dalla “pruderie” borghese, l’Associazione italiana editori periodici per ragazzi aveva stilato una sorta di “regolamento”. Uno degli articoli intimava: “La stampa per ragazzi non deve mai presentare le azioni criminose in modo tale da suscitare simpatia per il criminale, sfiducia nella legge e nella giustizia”. E ancora “l’eroe eviti di raggiungere il giusto scopo finale servendosi di mezzi delittuosi”, “sono proibite le eccessive nudità e le pose sconvenienti”. Diabolik si serviva di mezzi criminosi, le donne del fumetto non erano proprio castigate, ma le sorelle Giussani riuscirono sempre a evitare per un pelo la condanna. Non si è mai capito se il giudice si fermava alle copertine, sapientemente calibrate per evitare guai, o se Diabolik, tutto sommato, gli apparisse innocuo.
Se si guarda la storia dalla fine, cioè dalla scomparsa delle sorelle Giussani, appare ancora più inverosimile che siano state loro a inventare l’uomo dalla maschera nera. Avrebbero potuto avere una vita da jet set, uomini a profusione, forse mariti ricchi e famosi. Scelsero di invecchiare con l’unico amore, Diabolik, chiuse in ufficio, allegre, intente a immettere la modernità politica in quelle storie di crimine, proprio loro che erano state apolitiche in gioventù, pacificamente accoccolate nel fascismo della loro infanzia. Non si erano poste molte domande, durante e dopo il crollo del regime. Angela aveva addirittura sposato un mussoliniano, Gino, e la cosa non la disturbava, anzi neanche la toccava. Eppure, man mano che Diabolik diventava grande, le sorelle maturavano consapevolezza, sensibilità verso i movimenti degli anni Sessanta e Settanta e insofferenza per il conformismo borghese. Fino a quel “no” al divorzio gridato forte, stampato in copertina. Attorno a loro c’era il silenzio. Più Diabolik cresceva, più loro scomparivano dietro di lui. Fino a diventare invisibili. Angela si è ammalata ed è morta nel 1987, Luciana si è ammalata ed è morta nel 2001. Se ne sono andate, discrete e delicate, in punta di piedi, nuove Miss Marple di città.
Il maestro mi segue e mi protegge sempre. Se la prima recensione è apparsa su una rivista che in un’altra pagina parlava del nuovo album di Jannacci, stavolta è proprio la pagina contigua a raccontare del “maestro delle acciughe”. Quindi, volendo, si può prendere la doppia pagina, stenderla, leggerla e buttare il resto.
Lunedì a mezzogiorno dovrei essere ospite di Radio Popolare, nel corso della trasmissione Zoe. Per coerenza, potrei trovare un momento per parlare anche di questo “musicista e comunista, troppo scontroso e altruista per essere un’icone della nuova sinistra”.
4 commenti:
Se questa recensione rivela troppo la mia fretta ha una buona scusa per non leggerla.
...Io avrei dei riguardi anche a dire la trama di un film che per due riprende un sasso dallo stesso punto di vista, credo.
Concordo e rilancio: non solo non leggo/guardo niente di cui mi è stato rivelato troppo, ma non entro al cinema se il film è cominciato anche solo per trenta secondi, fosse anche per dei banalissimi titoli di testa.
...Emh, forse hai scritto male [che dio mi aiuti, l'ira barziana funesta giungerà?], ma io evito di leggere la recensione/trama/etc preventivamente, non è che salto direttamente l'opera in questione! Cazzo, non mi brucerei un'opera bellissima solo per questo! E' vero che a volte non riesco a prevenire, ma qui io "risolvo" la questione in un modo genialmente goffo: ho una memoria di merda e solitamente resetto le informazioni che non volevo prima di leggere/vedere/ascoltare/etc la dannata opera svelata!
Per l'entrata al cine sono d'accordo. Anche se la cosa può creare crepe relazionali (es: il gruppo con cui esce potrebbe abbandonarti!). Per la cronaca: credo che ora vietino di entrare in sala se il film è già iniziato. Sana cosa. Per chi già c'è e per le bestie che non hanno capito che il film lo guardi TUTTO, non stai facendo uno zapping fisico pub-cine-biliardo. Eh!
E rilancio ancora.
Titoli di coda.
La logica è la stessa, no, Davide?
Beh. Spesso nella mia città me li mozzano. Accendono le luci. In realtà non leggo mai TUTTO, ma chissenefrega, il punto è un altro. 'Sta cosa mi fa incazzare da morire. Accade dalla sala d'essai dalla quale ti aspetti approccio cinefilo alla sbrillucicosa multisala dalla quale ti aspetti professionalità e/o organizzazione.
Questo non è solo uno sfogo: FACCIAMO QUALCOSA. Tipo una raccolta firme, che dici? E' fattibile? Te, cinema, non accendi le luci finchè il film non finisce, uno. Mantieni tranquillità, come se fossi al 45^minuto (avete tutti il peperoncino nel culo?!). E pian piano la gente si abituerà. Come stanno sparendo gli intervalli, ecco.
Un mondo diverso è possibile.
Ora piango, se volete.
[Allucinante che il vocabolo "preventivo" io lo stia usando solo da quando si è parlato di guerra preventiva!
Scusate l'O.T..]
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